La scena è completa, qualche cosa sta per accadere e allora scatta l’obiettivo magico di Giampaolo Atzeni a cogliere quell’attimo che fugge. Un attimo soltanto. Poi qualcosa effettivamente accade. Siamo in uno scompartimento di un treno. Si parte e il paesaggio visibile dal finestrino cammina e scorre in senso contrario alla marcia del convoglio. Atzeni, oltre che fotografo di fama è anche ottimo pittore e ama coniugare le due attività a livello professionale. Ora vo osservando l’artista – pittore, geniale nella ricerca degli episodi da porgere in immagini all’osservatore certamente divertito da quei temi: visioni di terre lontane nelle quali si srotola una serie infinita di ricordi personali, una giovinezza scapigliata che in quei luoghi ha vissuto esperienze resistenti a ogni tentativo di cancellazione ma riducibili, certo, alla rappresentazione simbolica scolpita nella memoria; sostituendosi alla realtà. A quella vera. Dunque una serie di simboli: un paio di gambe femminili da top model (Atzeni è stato anche fotografo degli stilisti), un paio di seni rivolti all’insù (come i fiori dell’ipocastano – scriveva Pittigrilli) vanno via via stagliandosi su perfette campiture che le isolano con fanatico rispetto perché diano nell’occhio come decorazioni dell’ambiente, un ambiente nel quale vieppiù si identificano come decorazioni nella decorazione. Qualche valigia, una cappelliera, una borsa femminile sul ripiano porta – bagagli… scarpine rosse con tacchi a spillo intessono una capricciosa amicizia con alcuni oggetti disposti su un tavolino, diligentemente decorati: una teiera, la tazza, la zuccheriera, con tanti pesci dipinti sulle superfici sferiche; i posti vuoti per caratterizzare una situazione creata attorno ad un incontro non detto ma intuibile.
L’immobilità apparente di questo interno è frantumata da tutto quanto si inserisce nella visione che attraverso il cristallo del finestrino frantuma la studiata staticità del decoro. E il pittore seguita a raccontare le impressioni di un tempo velocemente trascorso e pertanto vivaci nei colori ancora intatti, con la precisione da archivista di quella somma di simboli che aiutano a capire meglio a ricostruire un sogno tornato a vivere in una sorta di fumetto vanitosamente ambizioso, con insistenti tentativi, nel vasto campo dell’arte visiva.
E se nel programma cambia il luogo della rappresentazione, è sempre la fantasia dell’autore a reggere le fila del racconto che deve spostarsi oltremare, verso i lidi mediterranei delle coste nord-africane magari, per essere fedele alle esperienze maturatevi. E ciò avviene con rappresentazioni egualmente ordinate e con un sentore onorico-romantico che stuzzica il contagio con immagini femminili sempre meglio rivelate per consentire alla scena un pizzico di erotismo. Comunque ottimamente controllato anche se talvolta le soluzioni disegnative e soprattutto cromatiche vengono tenute di proposito in una sensualità appena sopra il rigo. Ma subito temperate da fuggevoli riferimenti a Man Ray che riconducono alla simbologia della donna-oggetto le supposizioni erotiche; “La chitarra”, “la viola”, “La lira”…
E in questa misura che Atzeni controlla le sue esplorazioni oniriche lasciando a qualche atteggiamento chiamiamolo birichino il compito di esaudire la provocazione.
Resta ad ogni modo nelle sue composizioni il rigore disegnativo, frutto degli studi fatti in Architettura, e nei sogni di oggi ritrova le insistenze dei canoni reclamati dalla forma, dall’uso di geometrie e dal rispetto di motivi prospettici rimasti a educare una professione difficile che tuttavia Atzeni riesce a coordinare con apparente semplicità ma con la reale faticosa applicazione. Penso che l’invaghimento per la tesi Matissiana e dei “Fauves” sul colore che deve essere pensato, sognato e immaginato fino a conferirgli la funzione totalizzante della creatività, abbia tracciato un solco nell’arte di lui. E in quel solco ha seminato le sue idee che alimentano la sua modernità rispettosa della tradizione.
Il camino della mostra che in questi giorni arricchisce il programma espositivo dell’archivio di stato a Firenze è presso a poco questo. Una mostra divertente, dunque, che non riesce a celare tuttavia la grande serietà dell’impegno che la sorregge.
Tommaso Paloscia